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lunedì 15 marzo 2010

The Hurt Locker, ovvero l’Inferno secondo Bigelow



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Muri decrepiti, polvere, strade sconnesse. Il robot antimine degli artificieri USA avanza rapido tra macerie logore, i suoi cingoli calpestano ciò che resta di una Bagdad martoriata da anni di guerra. Uomini curiosi e bambini sorridenti si affacciano sulla via farfugliando parole incomprensibili. Fili rossi sbucano dal terreno: sotto ammassi di calcinacci sbiaditi si cela l’ennesimo ordigno di un nemico invisibile. Non è l’inferno, ma la sua rappresentazione più fedele, l’Irak odierno. 40 giorni all’alba, il sergente maggiore William James (Jeremy Renner, candidato all’Oscar per questo ruolo), 800 sminamenti alle spalle, viene spedito sul campo di battaglia ad affiancare il sergente JT Sanborn (Anthony Mackie) e lo specialista Owen Eldridge (Brian Geraghty). La macchina da presa, rigorosamente a spalla, segue i marines in ogni loro spostamento, ne simula lo sguardo attraverso rapidi movimenti in continua sequenza, brusche zoomate mettono a fuoco finestre, tetti, minareti, ponti, casupole, qualunque luogo in cui possa annidarsi un terrorista. Non c’è un attimo di tregua, né di trama, almeno stando ai parametri del cinema classico. Questa è la guerra, nuda e cruda, senza infarcimenti del cinema di genere, mera ricostruzione di giorni qualunque nella terra di nessuno.

Kathryn Bigelow serra le fila dell’epopea bellica senza prendere posizioni precise sulla giustezza o meno di un conflitto che insanguina le coscienze occidentali da qualche lustro a questa parte o, almeno, così sembra. I suoi sono antieroi che si muovono veloci tra cumuli di ostilità, contando i giorni rimasti da scontare al fronte insieme al palpitante spettatore che ne segue le gesta. In realtà, dietro l’apparente neutralità del narrato, la regista di Strange Days e Point Break costruisce un’opera robusta dal forte impianto antimilitaristico, come sembra suggerirci ad inizio visione la citazione secondo la quale “la guerra è una droga” che crea una dipendenza fortissima. E l’astinenza da esplosivo letale del rimpatriato sergente James rischia di portare ad una paranoica follia il reduce americano, preda per sempre di ossessioni dure a morire. L’unica cura per il cancro dell’inferno bellico sembra essere il ritorno ad esso, laddove i giorni che passano non sono più lente tappe verso l’alba del ritorno, ma solo oscuri segni su un calendario della memoria che ormai conosce solo tramonti. 5 Oscar (film, regia, sceneggiatura originale, montaggio e montaggio del suono) ed una camomilla al plastico per smaltire il tutto.

VOTO: 8

Giuseppe “Joe” Castronuovo

3 commenti:

  1. Se non fosse che in questa primavera avrei bisogno di vedere cose allegre e positive, per contrastare la crisi...lo andrei a vedere. Ma la recensione mi spinge a visionarlo. Gli è che ultimamente mi stancano gli Oscar, mi stancano le preconfezionate idee dei comunicatori globali. Non saprei. Mi rifugierò nel http://www.koreafilmfest.com a Firenze

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  2. mah, 'nzomma. Più 7 che 8, a essere buoni

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