Qui si traduce il nuovo Cinema, i Libri, la loro Musica. Cosa sono i libri se non pellicole di carta?
Cos'è la musica se non immagini che ci fanno vibrare?

lunedì 24 ottobre 2011

This must be the place




Cheyenne ha 50 anni, rossetto sulle labbra, rimmel e matita sugli occhi e un peso che porta quotidianamente con sé (dentro, ma anche fuori come il carrello della spesa o il trolley). Da giovane era una rock star, adesso è un uomo non risolto che vive di una fama amata/odiata. È un uomo che (come tanti nella realtà, n.d.r.) si appoggia in toto a una moglie forte che ne argini continuamente il dolore. Almeno finché la vita non gli fa incontrare la morte, e non una morte qualsiasi bensì quella del proprio padre. Sarà questo l'evento che, costringendolo a guardare oltre il vuoto di due splendidi occhi azzurri, lo porterà a vedere con un nuovo sguardo la realtà da cui è scappato, a cercare di riprendersi gli anni di stand-by emotivo trascorsi nella depressione, a ricongiungersi al padre nell'atto estremo della "vendetta" compiuta in sua memoria. È nel viaggio reale e metaforico che si compie il cambiamento e che il ragazzo Cheyenne diventa uomo. È un film romantico e poetico che Sorrentino ha costellato di una fotografia d'eccezione. Non so se verrà "ammesso" agli Oscar, forse non è nemmeno un film da Oscar (se stiamo al target cui ci hanno abituato negli ultimi anni), ma senz'altro è un film destinato a essere ricordato.
Buona visione!

Voto 9/10

Elide D'Atri

venerdì 7 ottobre 2011

Quando il genere fa scuola



DRIVE di Nicolas Winding Refn


Spesso ci capita, al cinema, di ritrovare atmosfere e spazi di cui forse ci eravamo dimenticati, relegati a vecchi film di genere, cose superate. E invece, tirate fuori di tanto in tanto da qualche sparuto regista un po’ eccentrico, scopri che calzano ancora, come un vecchio vestito. Registi così dimostrano di avere imparato più d’una lezione.

Stiamo parlando di Nicolas Winding Refn, quarantenne danese, che si è aggiudicato quest’anno sulla Croisette di Cannes il premio per la regia di Drive.

Chi guida (le auto a gran velocità, lo spettatore attraverso il film) è Ryan Gosling. Personaggio senza nome: meccanico di giorno, stunt-man a tempo perso, autista per rapine di notte. Si innamora della vicina di casa, che è in attesa del ritorno del marito dal carcere, e quando quest’ultimo si presenta, non potrà fare a meno di scortarlo nel portare a termine il colpo che salderà tutti i suoi debiti, mettendo a disposizione la propria arte: drive, guidare. Inutile anticipare che le cose prenderanno una piega inaspettata…

Il film segue un filone ideale che attraversa più realtà nazionali e che vuole rimettere a fuoco le grandi mitologie di un certo cinema americano del passato. Le atmosfere, le situazioni e le scenografie del film sono chiaramente frutto di una rivisitazione amorevole di uno stile già visto e conosciuto: dagli scenari notturni, al giubbotto metallizzato di un protagonista eastwoodiano (per i lunghi silenzi) ai cattivi ben caratterizzati ma che non incutono vero timore.

E a dirigere tutta l’orchestra una violenza che è sovrana, quasi un personaggio a sé, stemperata solo da brevi incursioni in un iper-romanticismo da cartolina (elementi che hanno fatto scuola, dal vecchio cinéma vérité à la De Palma al recente successo australiano Animal Kingdom), e da una scelta musicale originale quanto eterogenea in cui i violini dell’italianissimo Riz Ortolani fanno da contrappunto alla vendetta del protagonista, e le tastiere synthpop che chiudono il film, accompagnano il nostro guidatore nell’ultimo viaggio notturno con il brano A Real Hero, come a voler ristabilire i ruoli.

Buona visione.


lunedì 26 settembre 2011

Che la carneficina abbia inizio



Carnage di Roman Polanski





"Guarda da vicino" recitava nel 1999 il manifesto di American Beauty, film capolavoro di Sam Mendes che scarnificava la "Bellezza Americana", denudandola dalla maschera del falso perbenismo, per mostrarne la cruda realtà.
Ebbene, l'ultimo Polanski, Carnage, focalizza maggiormente la lente d'ingrandimento per osservare ancora più da vicino e mostrarne dettagliatamente gli aspetti e le sfumature che si celano al di là delle convenzioni sociali.
Due coppie "per bene", conformi e formali apparentemente, si trovano riunite,mediante un artifizio che opera da incipit: chiarire " civilmente" la lite tra i loro figli ,sfociata in una bastonata da parte di Zachary, figlio di un avvocato e di un'operatrice finanziaria, rompendo due incisivi a Ethan, figlio di una scrittrice e un venditore di articoli casalinghi.
Da lì a poco si penetra gradualmente nella vera personalità dei personaggi,a tal punto da assistere al "massacro" verbale del tutti contro tutti, una sorta di maieutica socratica, durante la quale i personaggi si svestono dei loro "abiti" sociali e crollano criticamente in dubbi, incertezze, in problematiche irrisolte che fuoriescono violentemente, liberate dalla "compressione" imposta dalla maschera abituale.
Un film che non annoia affatto, nonostante si svolga interamente all'interno della stessa stanza, un'ora e venti di durata in toto. Non sorprende ,difatti, che sia la trasposizione cinematografica di una piece teatrale, "Il Dio del Massacro".
Un meritata plauso che va all'ottima regia di Polanski e non meno alla bravura interpretativa degli attori, di cui tre premi Oscar.
Un cast sorprendente che si muove in una partita a scacchi introspettiva e beffarda.

Voto 8/10

Paola Vitale e Stefano Tavolo

mercoledì 21 settembre 2011

Super (?)8






Super8 di J.J. Abrams
Sei ragazzini armati di cinepresa Super8 si trovano nei pressi di una ferrovia per girare la nuova scena di un film che uno di loro sta realizzando. Ma, nel bel mezzo della ripresa, assistono involontariamente a quello che a prima vista si direbbe uno strano incidente tra un pick up che sterza improvvisamente sui binari ed il treno che in quel momento si trova a passare. Non è stato un caso. Dai vagoni in fiamme fuoriescono disordinatamente misteriosi cubi bianchi di dubbia provenienza. E mentre tutt'intorno è il fuggi fuggi generale, la cinepresa scaraventata a terra dal colpo della deflagrazione continua imperterrita a riprendere ciò che accade tra le fiamme dell'incendio sviluppatosi. E' l'incipit del nuovo film di J.J. "Lost" Abrams, ed è qui che il film nasce e muore. Si, perchè si era parlato di omaggio ai film adolescenziali degli anni '80, ma in comune con questi l'opera del regista di "Mission Impossible 3" ha solo il periodo in cui si svolge la storia (fine anni '70) e la stereotipia dei ragazzini che ivi si muovono (il grassoccio simpatico, il timido innamorato, la bella della porta accanto). Si, certo, ci sono i binari di "Stand by me", lo spirito d'avventura de "I Goonies" ed il sentore che gli extraterrestri c'entrino qualcosa (vedi "E.T."), ma il tutto si disperde nell'amalgama mal gestita che il regista mette in campo e nella prolissità del narrato che allunga il brodo in ogni suo piccolo dettaglio, facendo perdere l'emozione che i film di Spielberg sapevano regalarci e finendo per annoiare lo spettatore deluso che pensava di ritrovarsi di fronte ad un redivivo genere nel suo cuore mai estinto. Banale.

Voto 4/10

Giuseppe "Joe" Castronuovo

mercoledì 13 luglio 2011

Lo Hobbit o la Riconquista del tesssssoroooooo



Lo Hobbit o la Riconquista del tesoro di J.R.R. Tolkien

Bilbo Baggins è un hobbit come tanti: piccola statura, grandi piedi pelosi, pigrizia da vendere. Un bel giorno riceve l’improvvisa visita dello stregone Gandalf e dei suoi bizzarri accompagnatori, 13 nani dall’aria imbronciata e dall’assetata voglia di vendetta. Il piatto destinato a fredda consumazione è riservato al drago Smog, reo d’aver distrutto ed usurpato anni prima l’antico regno dei nani che si trovava sotto la Montagna Solitaria e di cui Thorin, uno dei 13 ospiti di Bilbo, è legittimo successore alla corona. Lì ancora, sotto i pendii ripidi del colle che si erge su una vallata ridotta a tetra desolazione dal fuoco vivo del drago, si nasconde il favoloso tesoro degli antenati del re nano e lì la compagnia è diretta, guidata dalla saggezza (e magia) dello stregone grigio cui, però, manca la figura di uno “scassinatore” utile al completamento della missione, Bilbo appunto. Preso alla sprovvista e privo di qualsiasi cognizione di ciò cui suo malgrado viene incaricato, lo hobbit si mette in viaggio al seguito del gruppo. Ma tanti sono gli ostacoli che ad essi si parano innanzi, primo tra tutti la presenza minacciosa dei nemici di sempre, gli orchi. Proprio durante un’imboscata di questi, Bilbo si separa dalla compagnia e, nella concitazione che segue la fuga e prima dell’incontro con una strana creatura che si annida nel sottosuolo delle Montagne Nebbiose (Gollum), trova per caso un misterioso anello dalle magiche proprietà.

Prima ancora d’incantarli con le avventure del prode Frodo, Talkien emozionò i lettori del 1937 accompagnandoli tra le pericolose lande di un mondo incantato dove lupi, aquile giganti, elfi e valorosi guerrieri vivevano all’oscuro di quanto da li a poco sarebbe accaduto a causa di un piccolo anello trovato per caso, mentre l’incandescente occhio di Slug riecheggiava terribile quello ancor più spaventoso del venturo Sauron.Narratore onnisciente, lo scrittore britannico s’incarna nella figura di Gandalf il grigio, sempre pronto a venir in soccorso ai suoi piccoli amici, ma mai disposto a concedere loro il disonore della vigliaccheria e, prendendoci per mano, ci guida alla scoperta di un universo di straordinaria verosimiglianza per i dettagli anche geografici ch’egli vi conferisce.
“Lo hobbit” è in primo luogo un romanzo fantasy di pura avventura, con tutte le caratteristiche del genere pronte a degna maturazione nel più famoso seguito de “Il signore degli anelli”, ma anche, e soprattutto, romanzo di formazione, laddove l’essere mite e pauroso di Bilbo si rivelerà eroe valoroso e fondamentale nella riuscita della missione, protagonista assoluto, con la graduale presa di consapevolezza di sé, del processo che conduce il lettore verso le future avventure della Terra di Mezzo. Avvincente.

Voto 8/10

Giuseppe Joe Castronuovo

martedì 31 maggio 2011

PER FARE L’ALBERO CI VUOLE IMPEGNO





The Tree of life di Terrence Malick


Indicazioni per lo spettatore: prima di recarvi al cinema, rimpinzate il vostro organismo di qualsivoglia eccitante a prova di programmi marzulliani riesca a tenervi svegli per almeno 2 ore.
Sprazzi di colore informe su fondo nero notte ci introducono ad una serie di sequenze in rapido succedersi che raccontano, in disordinata visione, il dolore per la scomparsa di qualcuno, forse di un figlio dell’America bigotta smarrito nell’imprevedibilità delle probabilità di sopravvivenza di ogni individuo. Stacco su: esplosione del Big Bang, lampi di fuoco infiammano l’iride psichedelizzata degli spettatori stupefatti, i quali, nel tripudio di amorfe forme sfumate e caleidoscopiche, cominciano a chiedersi cosa stia succedendo. E’ l’origine dell’Universo, ricreata magnificamente dal maestro Terrence Malick, e dal suo team di esperti degli effetti speciali, i quali, però, dopo mezz’ora buona di forme di vita elementare, stafilococchi ingrifati e platelminti preistorici alternati ad orogenesi e movimenti tellurici, dimenticano che lì in sala c’è gente che ha pagato per vedere quel prodotto che genericamente presenta una trama e che si chiama “film”. Qualcuno comincia a sbadigliare in sala, ma tutti sopravvivono all’impatto dell’opera vincitrice della Palma d’oro a Cannes, tranne il figlio diciannovenne del rude Brad Pitt, di cui il fratello minore, Sean Penn, rievoca il dramma in età adulta. Dov’era dio mentre il consanguineo tirava le penne? Sicuramente non al cinema, ove la pietà cristiana sembrava esser stata risparmiata ai poveri spettatori martirizzati.
Ed ecco la genesi del dramma: seguiamo nascita e adolescenza del futuro morituro, le marachelle con gli amici, gli scontri col padre, i primi pruriti e poi di colpo, bang! Torniamo alla narrazione dell’evoluzione terrestre, altri minuti di lento scorrere di creature preistoriche, spettatori che vivono il trauma di un trauma, stravaccati in poltrone scomode di cinema dormienti, in attesa che i titoli di coda abbattano la corteccia stantia di questo albero della vita che mai più nessun uomo sano di mente si sognerà di veder crescere. Soporifero.

Voto 3/10

Giuseppe Joe Castronuovo

L’ESSENZIALE CRUDELTA’ DELLA PURA VITA





THE TREE OF LIFE di Terrence Malick

Il padre padrone Brad Pitt perde l’adorato figlio diciannovenne cresciuto a pane, botte, disciplina e amore patriottico. Il trauma scuote dalle fondamenta l’americana famiglia profondamente cattolica, portando ogni singolo individuo del suo nucleo a chiedersi quale dio abbia permesso il verificarsi di tale tragedia. Ma, nell’incedere del passaggio dei giorni che scandiscono la nostra presenza sulla Terra, l’uomo è un essere troppo piccolo per pretendere d’avere l’attenzione di quella divinità che sembra voltargli le spalle nei momenti più duri, poiché la morte, mera componente dell’esistenza, ci accompagna da quando lo stesso concetto di vita è apparso sul nostro pianeta. Nel frastuono degli interrogativi che si pongono sulla presenza o meno di un dio a controllare le azioni degli uomini, Malik se ne sta in disparte ad osservare l’evolversi della vicenda, senza darci alcuna risposta, senza schierarsi da nessuna parte, ma ricostruendo con kubrickiana perizia l’origine dell’Universo, attraverso memorabili sequenze realizzate con magistrale uso della computer grafica che farebbero invidia ai documentari della famiglia Angela. La domanda si esplica attraverso la lentezza accelerata della narrazione: nel caos ordinato del riciclo di specie che, dagli albori della creazione, passando a grandi linee per i lucertoloni del Jurassico, ci porta fino alla nostra attuale condizione, cosa importa della morte di un semplice individuo, quand’egli fosse pure il giovane figlio di una famiglia bigotta? Sean Penn, il fratello superstite del defunto, se lo chiede ancora adulto mentre vaga smarrito per le vie di una New York distratta, e nessuna risposta, nonostante l’avanzare della modernità, arriva a risolvere il rimosso di quel trauma adolescenziale. Non ci rimane che la disperata ricerca delle ragioni del divino. Sempre che esso esista.

Voto 8/10

Giuseppe Joe Castronuovo

domenica 15 maggio 2011

Il Grande Fratello non è solo un reality per dementi


1984 di George Orwell


1984 di George Orwell

LA GUERRA E' PACE.
LA LIBERTA' E' SCHIAVITU'.
L'IGNORANZA E' FORZA.
1984. Il mondo è diviso in tre grandi conglomerati continentali in perenne guerra tra di loro per accaparrarsi il controllo dell'Africa: l'Oceania (che comprende le Americhe, le isole britanniche e l'Australia), L'Eurasia (il resto dell'Europa più una consistente porzione asiatica) e l'Estasia (Cina, Giappone ed i restanti territori asiatici).Winston Smith percorre le strade ordinate di una Londra futuristica sotto l'attento sguardo del Grande Fratello, un immaginario leader politico amorevole dietro cui, in realtà, si cela il sistema tirannico assolutista di un governo che non concede la benchè minima privacy ai suoi cittadini. Attraverso telecamere sparse per tutta la città e che si spingono fin dentro gli spazi più intimi degli appartamenti di ogni persona, il Grande Fratello controlla la vita degli abitanti dell'Oceania, ne condiziona pesantemente cultura ed abitudini, ne scruta l'incedere nei minimi particolari, eliminando qualsiasi ostacolo arrivi a minare anche lontanamente le basi del suo strapotere. Non c'è libertà di pensiero, né di parola: ognuno si muove attraverso percorsi prestabiliti da cui è vietato uscire, pena l'immediata “vaporizzazione” (metafora delle purghe staliniste) che cancella l'esistenza dell'inquisito dal corso stesso della storia. Ogni istante potrebbe essere l'ultimo, ogni amico rivelarsi nemico, ogni certezza menzogna. Persino i propri figli sono strumento di repressione, esercitando il ruolo di spie per conto del governo. A tentare di destare le coscienze dal torpore quotidiano ed instillare in esse la scintilla della rivolta, un misterioso gruppo di ribelli che si muove silenzioso tra le spire del sistema cristallizzato dietro il nome de “La fratellanza”, il cui leader, il fantomatico Goldstein, è ritenuto nemico numero uno dalle autorità di sicurezza. Incuriosito dalla figura di quest'ultimo e alla ricerca di quelle verità storiche che il governo continua imperterrito a camuffare, Winston decide di entrare segretamente in contatto con i ribelli per combattere uno stato di cose che la sua coscienza non riesce più ad accettare.

Scritto nel 1948 (il titolo è una chiara allusione all'anno di composizione, laddove le ultime due cifre dello stesso vengono semplicemente invertite), agli albori di quelle tensioni internazionali che sarebbero poi sfociate nel clima della cosiddetta “Guerra fredda”, l'opera di Orwell rivela da subito una brillante struttura ad incastri dentro cui si muove attento il suo protagonista: il consapevole immolarsi alla causa ( e ricerca) della libertà (verità) configura Winston sin dalle prime battute quale moderno martire destinato a fine sicura, ma non per questo disposto ad arrendersi. La tensione della lettura viene fuori dall'incombente senso di minaccia che si respira nella vita scannerizzata dei cittadini di questo mondo, dal filo sottile cui è legata la sopravvivenza degli uomini che si muovono al suo interno, dallo sguardo onnipresente e ubiquo del Grande Fratello, giudice e carnefice supremo che non lascia spazio ad alcuna possibilità d'appello. Winston è metafora e rappresentazione della coscienza umana incapace d'arrendersi ai dictat del regime e ad annullarsi alla volontà dei suoi rappresentanti, pronta ad emergere e ribellarsi per la giusta causa. Un'opera precorritrice di tempi, quelli di oggi, in cui il potere mediatico dei mass media piega alla volontà del tiranno di turno le masse ovine di popoli dormienti e, proprio per questo, forte nella sua intelaiatura e nel messaggio da essa sprigionata. Inno al libero pensiero, dovrebbe essere proposto nelle scuole. Capolavoro assoluto.
Voto 10/10

Giuseppe “Joe” Castronuovo

giovedì 3 marzo 2011

Macelleria cinematografica


IL CIGNO NERO di Darren Aronofsky


Una telecamera estremamente mobile accompagna lo spettatore durante 110 minuti di tensione, meglio, di inquietudine senza pudori e senza riguardo per gli stomaci più sensibili…

La ballerina Nina, che divide la propria esistenza tra la danza classica, che pratica con morbosa dedizione, e una madre castrante e frustrata, viene scelta per interpretare la protagonista del “Lago dei cigni” all’interno del New York City Ballet. Ha le caratteristiche giuste per rendere memorabile l’interpretazione del cigno bianco: è innocente, fragile, eterea. Ma troppo inibita per poter dare altrettanta convinzione all’altra parte che le tocca interpretare: il cigno nero.

Il doppio. Questo l’unico, semplicissimo nocciolo del film. Attorno a questo tormento spiraliforme senza esclusione di colpi (tutti rigorosamente splatter!) Darren Aronofsky (già regista di Requiem For A Dream e del Leone d’Oro The Wrestler) annoda la fitta sequela di “inciampi” della sua protagonista, fastidiosi quanto impressionanti (esponendo, come in una fiera macabra, la rovina di falangi, unghie e piedi torti…), e che mantengono viva l’attenzione, a fronte di una sceneggiatura francamente troppo piena di momenti loffi e troppo carente di veri slanci verso il pathos emotivo. Natalie Portman, magrissima e allucinata, ha vinto Golden Globe, premio BAFTA e Oscar.

Resta un film profondamente disturbante ma purtroppo gravemente incompleto, che recupera un poco della dignità di essere cinema nel finale (in cui la qualità scenica della mano del regista e le musiche di Čajkovskij creano un momento di partecipazione più viva), e ben recitato.

Brian De Palma e Stephen King, tanto per fare due nomi, avevano fatto molto meglio sull’argomento. Insegnandoci molte più cose.

Buona visione

6/10

martedì 5 ottobre 2010

«Qual è il parassita più resistente? Un’idea.»


INCEPTION di Christopher Nolan


L’ultima fatica di Christopher Nolan, preceduta da un battage pubblicitario fra i più accattivanti, riesce a non deludere le aspettative di chi è alla ricerca di cine-divertimento e qualche vertigine.

Nell’apparentemente molto macchinosa vicenda, il protagonista è il misterioso Dom Cobb (Leonardo DiCaprio), che ha un tragico passato e un mestiere molto particolare. E’ infatti un “estrattore”: sottrae con l’inganno i segreti più nascosti e più importanti che gli individui custodiscono nel proprio subconscio. Come? Intrufolandosi nei loro sogni, dove nessuno possiede controllo, le difese sono inesistenti, le porte sono schiuse ai traumi vissuti…

Per avere la possibilità di tornare a casa dal suo esilio deve compiere un’ultima missione, un compito inverso rispetto a quello solito: non estrapolare idee ma impiantarne una nella mente di un potente erede, affinché smembri l’impero di famiglia a beneficio del magnate concorrente, che commissiona il lavoro a Cobb. Si tratta dell’inception (in italiano tradotto con “innesto”).

Su quello che pare un semplice, banale compito (infondere in un soggetto un’idea che sembri del tutto spontanea) è incentrata buona parte del film.

Di gran pregio la confezione, arricchita dai fragori orchestrali di Hans Zimmer (Il gladiatore, Il codice DaVinci) che collabora questa volta con l'outsider Johnny Marr (mitico chitarrista degli Smiths). Una fotografia metallica e i raffinati effetti speciali che Nolan ha voluto in gran parte realizzare meccanicamente, incorniciano un racconto scandito da sogni che si incastrano come scatole cinesi (per raggiungere la sfera di pensieri più intima del soggetto), in cui i protagonisti, le maestranze che Cobb riunisce, lottano, corrono, saltano, tentano una difesa disperata dalle proiezioni maligne del subconscio ospitante. Compresa la defunta moglie di Cobb (Marion Cotillard), novella Erinni, che continua a funestare i sogni del marito.

Il film, considerato dai più non immediatamente comprensibile per la sua (affascinante!) struttura a incastro, si rivela in realtà godibile per lo spettatore, anche se a tratti si fatica a seguire i serrati dialoghi che sono indispensabili per comprendere tutti i passaggi. Come ha giustamente sottolineato Paolo Mereghetti sulle pagine del Corriere, Nolan non è, a differenza di quanto aveva dimostrato nel precedente Il cavaliere oscuro, preoccupato di mostrare nei minimi dettagli tutte le componenti hi-tech che rendono la storia possibile (correndo il rischio di disseminarla di “buchi”), bensì di sviluppare la sua particolare fascinazione, raccontando il luogo più primordiale e labirintico di tutti: la mente umana.

Non bisogna essere dei gran cinefili per avere più volte una sensazione di dejà-vu (Matrix, Avatar, etc…), ma l’idea di fondo si dimostra originale e Inception non delude le aspettative che la filmografia di Nolan porta con sé. In fin dei conti è l’intrattenimento intelligente che fa grande il cinema, e che rimane. Buona visione.


Voto 7,5/10